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Claudio Fava: I disarmati. Storia dell’antimafia.

mercoledì 18 marzo 2009

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I disarmati è un viaggio che racconta i complici del silenzio e del consociativismo mafioso: nel giornalismo, nella politica, nella società civile. Per una volta, con i nomi e i cognomi al loro posto.

"C’è un episodio, all’inizio degli anni Novanta, che dà la cifra esatta del grado di subalternità alla mafia. Alla famiglia degli Ercolano, cognati di Santapaola, erano stati affidati due compiti: ad Aldo quello di ammazzare, eseguendo personalmente gli omicidi oppure distribuendoli alla sua squadretta di sicari; al padre Giuseppe spettava invece il compito di riciclare i denari della Famiglia attraverso imprese di trasporti, supermercati, sale gioco. [...] È in questo clima senza pudori che il nome di Giuseppe Ercolano viene infilato, quasi per necessità, in un rapporto di polizia. Quel rapporto finisce nelle mani di un giovane cronista, un «biondino», come s’usava dire dei giornalisti precari, apprendisti senza contratto in attesa che in redazione s’aprisse uno spazio anche per loro. Il «biondino» si chiama Concetto Mannisi, dalla cronaca lo spediscono ogni mattina a fare il giro degli ospedali, a raccogliere i mattinali in questura, a mettere in fila le cifre sugli scippi e sui tabaccai rapinati. La sua corvée quel giorno è fortunata: gli capita tra le mani la denuncia all’autorità giudiziaria nei confronti di uno degli Ercolano. E Mannisi ne dà notizia, riportando fedelmente quanto sta scritto nel rapporto dei carabinieri. Il giorno dopo, appena il «biondino» mette piede nel giornale, il capocronista lo manda a chiamare e se lo trascina dietro nella stanza dell’editore. Ad aspettarlo, assieme a Mario Ciancio, c’è Giuseppe Ercolano. Denunciato ma ancora inspiegabilmente a piede libero. E dunque libero di venire a protestare con il padrone del quotidiano per quell’articolo così poco garbato nei suoi confronti. In qualunque altra redazione, se un mafioso fosse venuto a lamentarsi per una notizia (vera) che lo riguardava, il direttore avrebbe telefonato al 113. Mario Ciancio invece riceve Ercolano nel suo studio, convoca il cronista colpevole d’aver dato la notizia (vera) e, in presenza del capomafia, gli fa un solenne cazziatone: «Che mai più ti accada di chiamare mafioso il qui presente signor Ercolano!» Veramente l’hanno scritto i carabinieri, prova a giustificarsi il cronista. Noi non facciamo i carabinieri, replica Ciancio: e di quello che c’è scritto sul loro rapporto non gliene frega nulla. Ercolano, stravaccato sulla sua poltrona, annuisce con paterno silenzio. Sono i suoi ultimi giorni di gloria: lo arresteranno pochi mesi dopo con l’accusa di associazione mafiosa. Per i giudici, Ercolano è il reggente della Famiglia, il capo indiscusso della cosca per conto del cognato Santapaola. Per Ciancio è solo un onesto commerciante."

La mafia dei padrini e dei criminali da una parte, l’antimafia dei giudici e delle forze dell’ordine dall’altra. Per molto tempo abbiamo raccontato la guerra a Cosa Nostra come una lotta fra bene e male, fra buoni e cattivi. Come se si trattasse di vicende di cui altri - non noi - erano i protagonisti: così gli eroi sono diventati martiri, la cronaca è diventata tragedia e la memoria s’è ridotta alla commemorazione dei nostri morti: Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, un pugno di giornalisti, qualche prete, un paio di politici¿ Ripercorrere oggi la storia dell’antimafia significa parlare soprattutto dei vivi, delle occasioni perdute, di chi avrebbe dovuto e potuto fare ma ha preferito voltarsi dall’altra parte: i rassegnati, gli ingenui, gli opportunisti, i furbi, gli smemorati. Claudio Fava - una vita trascorsa a guardare il potere mafioso negli occhi, prima come giornalista, poi come scrittore e politico - perlustra questa terra di mezzo, le infinite zone grigie della compiacenza che hanno imbavagliato l’antimafia e reso possibile, talvolta addirittura favorito, l’esistenza della mafia.




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