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Librino anno 1983

venerdì 4 gennaio 2008, di Luciano Bruno

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Era il primo gennaio 1983, quando misi piede per la prima volta a Librino. La mia nuova casa si trovava il secondo piano di un palazzo sito in viale Librino 52; appena arrivati abbiamo scaricato il primo camion con dentro la stanza da letto, il soggiorno, e la cucina. Quei mobili erano stati comprati da mia madre con i soldi della liquidazione del lavoro di collaboratrice domestica,presso l’istituto di padre Musumeci,nel secondo camion c’era il salone di mio nonno che regalò a mia madre. La mia nuova casa non mi piaceva, era piccola, umida, e lontana da mio nonno; lui si accorse che ero scontento e mi disse: “Non preoccuparti anche se non vivi più a casa mia, io verrò a trovarti tutti i giorni”. L’indomani andai a fare un giro nel mio nuovo quartiere; più giravo e più mi rendevo conto che quel quartiere non aveva nulla, c’erano solo le case, mancavano i servizi più elementari: una centrale di polizia, la strada, l’ospedale, un campo di calcio; rimpiangevo la vecchia casa, anche se era una baracca, almeno lì c’era il campo di calcio.
Dopo un mese di passeggiate per il quartiere una mattina ho incontrato dei ragazzi della mia età; uno si chiamava Piero (Pietro tigna), il secondo Maurizio (pidocchio) e l’altro si chiamava Nino(grattacielo). C’erano anche Stefano (funcia), Carmelo (mezza birra), e mio cugino Luciano (Lucio Dalla).
Un giorno insieme con i miei nuovi amici siamo andati a rubare arance, limoni, mandarini nei terreni vicini al quartiere; mentre ero sull’albero che raccoglievo arance ho sentito uno sparo, era il guardiano che mi disse: “cornuto figghiu di bona madri lassa stari i me aranci annunca t’ammazzu”. A quelle minacce saltai dall’albero e cominciai a correre, i miei amici mi aspettavano fuori del non giardino. Da quel giorno non siamo più andati a rubare.
Non avevamo un campo di calcio dove giocare; un pomeriggio insieme abbiamo deciso di giocare a calcio sotto i portici di un palazzo; mentre giocavamo dal balcone del primo piano si affacciò un signore di mezza età e disse: “carusi iu aju a dommiri sta notti, mineghiri a travaghiari, cià finiti stu budellu?”, io risposi: “nuautri ama jucari”. Dopo cinque minuti sentimmo aprire il portone; era quel signore che era sceso con un bastone; non appena lo abbiamo visto siamo scappati chi a destra e chi a sinistra, lui ci ha detto: “se tornate qui a giocare il bastone ve lo rompo in testa”.
L’indomani vennero a suonarmi a casa Pietro Tigna e Pidocchio che mi dissero: “Minnirossi - così mi chiamavano - attruvamu u terrenu ppo campu”. Era un terreno in creta pieno di dislivelli. Io pensai: “Qui ci vuole una settimana di lavoro, dobbiamo procuraci il materiale per trasformarlo in campo da calcio.”
Dopo una settimana di lavoro senza tregua il nostro campo era pronto, cominciammo subito ad organizzare dei tornei con i quartieri vicini; le partite si giocavano di domenica. Una mattina siamo andati al campo per gli allenamenti per preparare la partita contro il quartiere San Giorgio ma con sorpresa abbiamo visto che nella strada adiacente il campo c’era una ruspa, così ci siamo avvicinati per chiedere spiegazioni.
L’unica spiegazione che ci hanno dato è stata che loro l’ordine di abbattere il campo l’avevano ricevuto dall’amministrazione di allora, perché in quel terreno dovevano passare i tubi dell’acqua.
Eravamo punto e a capo: non avevamo più un posto dove giocare, l’unica soluzione era quella di ricostruire un altro campo sportivo. “Non sono d’accordo - disse Pidocchio - “tanto poi u sdurrubunu di novu”. “Cosa facciamo?” chiesi io, e lui mi rispose: “jucamu ‘ntà piazzetta, non penzu ca sdurubunu macari chidda”.
Iniziammo a giocare nella piazzetta vicino il mio portone, dopo circa mezz’ora si sentì una voce che diceva: “Finitela di giocare davanti il portone, rischiate di rompere i vetri”. Io risposi: “senta, noi da qualche parte dobbiamo giocare!”. Dopo un minuto il signore scese, si avvicinò a me, mi diete due schiaffi e se ne andò via.
Un’altra mattina eravamo seduti nelle scale vicino il mio portone e parlavamo di quale futuro ci aspettava in quel quartiere dimendicato da tutti; si alzò Pidocchio e disse: “invece di stare qui perché non andiamo al mare?”, “E’ una buona idea - risposi io - “andate a mettervi il costume, ci vediamo qui tra 15 minuti”. Appena pronti siamo andati alla fermata del 45 che era l’autobus che da Librino ci portava al Duomo e poi il 30 che ci avrebbe portato vicino la spiaggia di San Giovanni Licuti.
Appena arrivati lì ci spogliammo per tuffarci; nessuno voleva tuffarsi per primo allora io dissi: “facciamo il gioco dello scoglio a mare; per primo mi tuffo io e poi chiamerò uno di voi, in base al nome che farò lui si butterà”. Arrivato il turno di Pidocchio prese la rincorsa e si buttò; allora ci siamo accorti che aveva difficoltà a restare a galla, io Tigna e Lucio Dalla ci siamo tuffati per aiutarlo e lui ci disse: “grazie amici se non era per voi a casa oggi non ci tornavo”.
Per varie ragioni le nostre strade si sono divise, ma io non dimenticherò mai quell’estate perché mi ha insegnato una cosa: anche se vivi in un quartiere povero e non hai i soldi per fare tante cose, quello resta il tuo quartiere.




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